le grandi vie commerciali che collegavano i fondaci veneziani all’Europa centrale e orientale, la dislocazione in prossimità dei valichi alpini di magazzini, di stazioni di posta, di mercati, di uffici daziari e di presidi offrivano alle genti dei due versanti occupazioni e cespiti di entrata integretativi alle attività agro-silvo-pastorale, mentre la sorveglianza dei passi affidata in circostanze eccezionali alle comunità locali continuò a garantire per tutta l’età moderna immunità, privilegi e esenzioni fiscali.
Il governo marciano continuò ad attribuire grande importanza al controllo dei confini, non solo a salvaguardia delle sue prerogative sovrane, ma soprattutto a tutela dei suoi interessi economici, fondati in gran parte - come è noto - su una politica commerciale e industriale, contrassegnata da rigide norme protezionistiche, vincolistiche e monopolistiche, tanto che le voci d’entrata più consistenti nel bilancio dello Stato rimanevano legate a quell’insieme di dazi e di gabelle imposti a tutte le merci in circolazione in entrata e in uscita, provviste di bollette di circolazione rilasciate dagli uffici veneziani o dalle Camere fiscali di terraferma. Si trattava di un fiscalismo pesante, reso più oppressivo e indiscriminato per il fatto che colpiva sia i generi voluttuari sia i prodotti di più largo consumo, indispensabili al sostentamento delle popolazioni delle città e della campagna, i profumi esotici della cortigiana, come la rocca e il fuso di una vecchia montanara o gli utensili in legno che un valligiano smerciava di porta in porta. «Quando si ragiona di daciari et gabellieri, par che si nomini il diavolo e peggio [...]. Né basta il dacio dal pane, dal vino, dal sale, dal fieno, dall’orzo, dalle bestie, dai panni vendibili, da tutte le specie di mercantia - denunciava verso la metà del ’500 con malevolo e sferzante sarcasmo Tommaso Garzoni nella sua "Piazza universale di tutte le professioni" - che un di su l’urina guasta si porrà una gabella, acciò che ’l mal della renella venga per forza a tutti.»[9]
D’altra parte la rigidità delle normative e la severità delle pene previste contrastavano con l’ampiezza delle evasioni fiscali che un farraginoso apparato di controllo e di repressione non era in grado di fronteggiare e circoscrivere, offrendo varchi sempre più ampi al commercio di frodo e al contrabbando, vanificando la promulgazione di bandi e decreti sempre più rigorosi e particolareggiati, tanto che - come sottolineò con rassegnata impotenza nel gennaio del 1719 l’Inquisitore ai dazi Giovanni Battista Lippamano in una relazione al Doge - «Tutti li studii e le applicationi non servono che per accrescere il dolore, rendendo la malitia de contrabandieri et la loro forza deluse tutte le meditationi.»[10]