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Ore di città/57

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193938Ore di città/571988Delio Tessa

In sul Durin

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Dicono così e non vi so dire il perché: «Son staa in sul Durin... voo in di Boss... passi de Santa Babila...» tutte locuzioni milanesi strane ed anche errate che tradotte equivalgono a: sono stato in via Durini, vado in via Bossi, passo da San Babila...

In sul Durin, vicino alla chiesa ci sono stato per circa dieci anni dall11 al '20, con qualche interruzione, per la mia pratica legale presso un avvocato che oggi ha finalmente realizzato un suo vecchio sogno e si è ritirato a zappà patati in un fondetto in campagna a due passi dalla frontiera svizzera.

In quel tempo era un aitante barbison che sgambava per gli uffici, bizzarro, dinamico e smemorato. Stava dapprima al 18, la porta dopo i Crositt - la chiesa dei Crociferi. Capitava qualche volta che ritornando dal Tribunale infilasse per antica consuetudine di passi quella porta lì... poi si trovava in corte, si guardava intorno stupefatto, faceva un gesto vago di disappunto e tornava indietro.

In anticamera... pum!... veniva dentro come un bolide e aggrediva la commessa: «Lee!!...» ma a mezzo di una scarica di rimproveri e di recriminazioni era spesso fulminato da un'idea, da una mezza idea che non riusciva a plasmare nella testa e restava in asso... «Be'!...» diceva e andava di là...

Il suo studio era una babilonia di carte, di fascicoli sparsi, di lettere incominciate: «Dove l'è?... dove l'è? - urlava - l'era chi adess e el gh'è pu!» Ci voleva mezz'ora a capire cosa cercasse.

Durante una riunione di creditori in seduta fallimentare stava esponendo le cause e le poche speranze del dissesto e quei disgraziati pendevano dalle sue labbra. Lui, in piedi, gestiva guardandosi intorno e fuori della finestra quasi a prendere ispirazione dalle case in faccia ma... ecco... d'improvviso...

«Ah... - esclama - ...che crepp!» ...e sta lì, gli occhi in su, in contemplazione del soffitto... cosa aveva visto? una crepa: una larga crepa nell'intonaco del plafone!

I creditori, spaventati, dimenticano il verbale di verifica e guardano in su anch'essi quasi fossero sul punto di far la morte del topo!

Era fatto così; bastava un niente a distrarlo e a fargli perdere il filo... la memoria poi... Un giorno, per conto di un cliente, aveva scritto una lettera ad un tale perché passasse da lui: «Per comunicazioni urgenti che lo riguardavano».

Quello viene, si fa annunciare, è introdotto e...
«Buon giorno, signor avvocato».
L'avvocato sorride: che sia un cliente? - pensa - «Buongiorno!»
«Io sono il signor Carlo Righini».
«Piacere, s'accomodi, cosa desidera?»
«Io? Niente! È lei che mi ha mandato a chiamare».
«Io?»
«Sì, lei, ho qui la sua lettera».
«La mia lettera?»
«Sì, eccola».
Il sig. Righini la tira fuori e gliela mostra. L'avvocato la legge «... La prego passare da me per comunicazioni urgenti che la riguardano...»
«Già! Sicuro... Oh bell!!...»
«E allora».
«Mah!»

Insomma non si ricordava più cosa doveva dirgli!

Il sig. Righini intasca la lettera e conclude: «Vuol dire che quando le sarà venuto in mente tornerà a scrivermi». E se ne va. La commessa trova il principale immobile alla scrivania, cogli occhi sbarrati nel vuoto... capisce e lo illumina: «Ma el se regorda no?... l'era per quell contratt...»

«Ah... sì! Lee... cià che la corra, che le ciappa...»

Fuori per via Durini all'inseguimento del signor Carlo!!!... ma, sì! tutto inutile! bisognò proprio scrivergli un'altra volta! ... Nei giorni di sciopero, di cortei, di bandiere rosse, di dimostrazioni non poteva star fermo sulla sedia. Se sentiva passare per via Durini cantando quelli del sol dell'avvenire, saltava in piedi e usciva a precipizio. Sulla porta, in gruppo con la portinaia e con le servette, seguiva i dimostranti coll'occhio torvo, brontolando. Poi, di furia, tornava in studio. Era un arrabbiato conservatore e alla commessa diceva: «Mi col me natural» e intendeva alludere alla prudenza che bisognava usare in quelle circostanze perché col suo naturale avrebbe potuto fare uno sproposito.

Però non ne fece mai. Gli ultimi anni della sua professione li passò tranquillo con due vecchi colleghi beoni che piovevano la mattina dalla campagna in città e parlavano più del vino e del prezzo del frumento che delle cause.

Ma in via Durini viveva come in un turbine. Rivedo gli inquilini della casa. A pianterreno ci stava una nobile famiglia milanese, molto nobile ma altrettanto decaduta. A parte le indiscrezioni del cuoco ai portinai, la magrezza dei menù la si poteva desumere dallo stato di denutrizione della cagnetta che mostrava le ossa, povera Diana! Oltre al nome le avevano anche affibbiato un cognome; la chiamavano Diana Patiss... Diana patisce, Diana soffre...

Le signorine di casa, le bionde marchesine, vedevano, ahimè! gli anni passare inutilmente. La maggiore aveva un collo lungo... lungo che dicevano le si fosse allungato in cerca di un marito; la minore, per quanto non più giovinetta, era obbligata a tener le trecce giù per le spalle tanto da non invecchiar troppo la sorella. Si servivano del telefono dello studio e di preferenza quando c'erano i sostituti.

Il palazzotto settecentesco rimesso a nuovo dall'ultimo proprietario mi richiamava alla mente incerte visioni della mia fanciullezza. Era allora la dimora avìta d'un cugino di mia madre persona religiosissima, d'una religiosità ombrosa e formalistica. Ricordo, non la terza parte del rosario, ma i rosarii interi con la servitù in ginocchio sulle sedie lungo le pareti e la lucerna a olio in portineria e il lumino che ardeva sempre quieto davanti alla Madonna sotto il portico. Al secondo piano ci stava un'altra famiglia nostra amica che teneva una rinomata macelleria sul ponte del naviglio in Verziere. La sleppa de manz formava il centro e il vanto di quei gran pranzi dalle tre portate di carne! Una volta il minore dei ragazzi, el Giovannin, si addormentò di piombo mentre servivano l'arrosto e si destò alla torta; si guardò in giro cercando qualche cosa che non c'era più e battendo la forchetta sul piatto si mise ad urlare: «Mi òo minga mangiaa la carna!» «Mi òo minga mangiaa la carna!»

Una delle figlie andò suora, l'altra si sposò in via Durini; suo fratello, uno dei primi ingegneri che a Milano si occuparono di elettricità, portò un'intera batteria di accumulatori in corte e installò la luce elettrica nella casa per le nozze della sorella.

Vedo ancora il cugino Don Alberto col suo palamidone nero e la mezza tuba guardar perplesso il carro contenente le cassette e quei fili, tutti quei fili e lo sento chiedere: «E poeu? saltarem minga per aria!»

Molti di costoro sono morti, ormai... Don Alberto, la signora Vittoria, el Giovannin... ed altri, presi nel turbine della vita, si sono dispersi. Una casa ove sei stato per degli anni ti fa melanconia vedendola quando passi. Chi ci sta ora dove eri tu? - ti domandi - il tuo posto è occupato.