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Ore di città/03

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Piazza Vetra (la vecchia)

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Devo alla vecchia piazza e al suo popolo acquartierato quel poco che so di lingua milanese.

Il mio amico Luigi Degli Occhi che abita non molto lontano, in San Sisto, e che nei tempi eroici del foga girava al largo preso da timore reverenziale, l'aveva battezzata l'Università Castrense perché alta scuola di perfetto eloquio e in omaggio alla guerra che la sua gente vi combatteva da anni contro l'Autorità costituita.

L'Autorità era lì a due passi, al numero 15, rappresentata dalla sezione dei RR.CC. e guardava senza sospetto qui carampann de cà, qui bueij, qui nateer assiepate e infossate in quella famosa via Vetraschi prospiciente la Vedra ed esattamente dove oggi è sorto il palazzo delle scuole e il Supercinema.

Le case erano desolatamente decrepite. Se si godeva di qualche influente amicizia si poteva senza pericolo entrare in una di quelle brutte botteghe e se l'amicizia era antica e provata ti facevano passare nel retro e lì qualcosa di interessante ti si parava dinanzi. ... vedo un grandissimo locale alto e un po' buio agli angoli e qua e là miserabili carcasse di vecchie carrozze erano lasciate lì a finire. Erano cinque o sei brum a pezzi di quelli che una volta correvano l'acciottolato della città: «Oh bell... come mai gh'è chì 'sti legn?»

«M'han ditt che in 'sta cà ghera ona rimessa de brum, ghe doveva vess anca la stalla di cavaj...» ... Penso le notti di quegli anni lontani allorquando gli ossuti ronzini zoppicando, inciampando, se ne tornavano alle stalle di questa tetra piazza. C'era qualcuno più stanco di loro in tutta Milano? Un brum senza una ruota e senza stanghe ha ancora qualche lembo di tendine blu scure... ... guardo quei brandelli e mi par di sentire una voce... è un giovanotto. Vicina a lui, stretta, c'è una fanciulla che non vuol essere vista... (in quel tempo le giovinette si chiamavano ancora fanciulle e non ragazze come ora). ... salgono.

«Dove vemm?...» «Dove el voeur lù...»

È una sera di maggio tanto... tanto... dolce... El brum l'infila la prima via che incontra e adagio, adagio raggiunge i bastioni... i grandi ippocastani, le tendine calate addormentano le ultime ritrosìe della fanciulla...

... L'uomo che mi accompagna dice:
«Adess sti locaj serven de magazzin».
«De coss'è?»
«De tanti robb!»
Ho capito. Il mio confidente aggiunge:

«Andand giò de chì, de cort in cort, se ven foeura in San Vit...»

Ho conosciuto su la Vedra i piccoli e i grandi professionisti: i sacchetta (forse da sacca, tasca) erano quelli giù giù, che si accontentavano del borsellino spicciolo. «Fan el pizzic» come dicevano; toglievano leggermente, con destrezza, oppure, e con maggiore ardimento, «fan frecc el quaja» (rubavano il portafoglio).

Perché quella brava gente si decidesse a sbottonarsi, ci voleva del tempo, bisognava star con loro e farsi dimenticare. Se ti mostravi curioso si chiudevano e non c'era più niente da fare. I «negher» stavano ai ladri come i professionisti di diritto stanno agli avvocati. Erano l'élite della professione. Operavano sui treni. Prestanza fisica, correttezza nel tratto e nell'abito e abbonamento ferroviario. Difficilmente viaggiavano soli. Qualche bella ragazza li accompagnava. Non sempre un uomo può essere in condizioni di attaccar discorso col vicino. Una donna può servire.

Ho assistito una volta alla spartizione dei residuati di un bottino. C'erano le tessere, i documenti personali di una disgraziata forestiera. Pensavo a quella povera diavola senza carte, non pratica della lingua in cerca del suo Consolato per uscire di pena. Mi impietosivo alla sua sorte e tutti consentivano con me. E allora? Perché non restituire perlomeno queste carte che non servivano, ed anzi possono essere pericolose?

Mi hanno risposto che la restituzione presenta sempre qualche pericolo e che il meglio è bruciar tutto. Ho patrocinato con tanto calore la causa della povera sciora foresta senza i cart, che non dubito di averli convinti alla restituzione. Il Padre Eterno quando farà i conti concederà loro le attenuanti generiche.

Subito dopo guerra, una antivigilia di Natale, ho tenuto una dizione portiana in una casa di piazza Vetra. Non era precisamente un salotto letterario. Non vi dirò che salotto fosse. Ho avuto due sorprese. Ho constatato intanto che il Porta è conosciuto più di quello che si potrebbe immaginare: «ch'el disa quest, ch'el disa quell...» Sapevano i titoli e anche i passi più importanti... poi, che cosa è successo? È successo che il programma che avevo preparato ha fatto fiasco e ho dovuto sostituirlo seduta stante. Mi ero detto: ambiente popolare, ragazze allegre... oh dunque... poesie libere! Al contrario. La Ninetta del Verzee li ha lasciati freddi e il «...citto vessighett...» e la «sura Catterinin...» non hanno destato interesse. Si sono invece entusiasmati ai grandi quadri settecenteschi delle vecchie dame contegnose e bigotte, e si sono commossi alla sorte dei poveri preti che trottavano per azzeccare un funerale o una Messa. Proletari anche loro!

Dirò, per concludere, che mi è capitato invece l'opposto in case signorili. Che cosa devo dedurne?

Ogni quartiere ha le sue ore di riposo. Magari soltanto due o tre prima dell'alba. La Vedra, no: era insonne. Lussuose automobili

venivano per motivi incerti. Gente parlottava agli sportelli. Sostavano lungamente. Poi il campanile di San Lorenzo si destava.
L'Angelus le metteva in fuga...
Chi era del posto non veniva né molestato né apostrofato. Gli altri eran spesso raggiunti da qualche acuto strale.
Passava un cappello duro...
«Dàghela al cardanell! Fagh la fesa!»
Passava una bionda...
«Coo de loeuva!»
Passava una testolina ricciuta...
«Coo de bròccol!»

Ma il mio amico Luigi che abitava - come vi ho detto - in San Sisto (qualche passo più in là) aveva torto di allarmarsi. Questo caso, del resto, avrebbe dovuto rassicurarlo.

La mamma di un mio compagno di scuola con negozio di cordami da quelle parti era in chiesa una domenica e si sentì mettere le mani in tasca. Diede l'allarme strillando:

«Oh donn, me roben!»

I compari erano due. Quello che teneva d'occhio l'ambiente diede una gomitata all'altro, incaricato del colpo, borbottando:

«Mamaluc! Te vèdet no che l'è la cordera del vint!...»
Poi si squagliarono.